Creare le infrastrutture della pace

26/01/2008

CREARE LE INFRASTRUTTURE DELLA PACE

Con la fine della guerra fredda e delle minacce di una guerra nucleare totale, è emerso il nuovo pericolo della proliferazione nucleare. Bisognerebbe stabilire un consenso internazionale sulla illegalità delle armi atomiche

Per cercare di ridurre gli attriti e prevenire un’ulteriore escalation nella corsa agli armamenti, nel periodo di maggiore tensione della guerra fredda proposi degli incontri al vertice tra i leader delle due superpotenze e mi impegnai in attività di diplomazia cittadina per incoraggiare il dialogo e lo scambio. Quando – oltre a quello tra Usa e Urss – anche il conflitto tra Cina e Unione Sovietica arrivò a un punto critico (1974-75), viaggiai nei tre paesi in veste di privato cittadino per incontrare, tra gli altri, il premier cinese Zhou Enlai, il premier sovietico Aleksei Kosygin e il segretario di stato americano Henry Kissinger. Attraverso questi sforzi speravo di poter costruire ponti che avrebbero portato a un miglioramento delle relazioni fra i paesi in conflitto.
Allora ero spinto dalla determinazione che si dovesse prevenire a tutti i costi un conflitto nucleare su larga scala, che avrebbe avuto effetti catastrofici per l’intera specie umana, e che si dovesse porre fine alle guerre che stavano dividendo il mondo al prezzo di enormi sofferenze. Ora, con la fine della guerra fredda e la cessazione delle minacce di una guerra nucleare totale, è emerso un nuovo pericolo: la proliferazione nucleare.
Nella mia proposta del 2007 chiesi che si avviasse un processo di transizione verso un sistema di sicurezza che non dipendesse più dalle armi nucleari, e proposi di creare un’agenzia internazionale per il disarmo nucleare che assicurasse l’adempimento in buona fede degli attuali impegni legali in materia di disarmo.
Per ottenere l’abolizione delle armi nucleari è altrettanto importante costruire un consenso internazionale sulla natura fondamentalmente illegale di tali ordigni. Per contribuire a questo sforzo vorrei attirare l’attenzione sulla proposta avanzata nell’agosto del 2007 dal gruppo canadese Pugwash di creare una Zona artica denuclearizzata (Nwfz, Arctic Nuclear-Weapon-Free Zone). La Sgi, come organizzazione che si batte per un mondo libero dal nucleare, offre il suo appoggio a questa richiesta in accordo con lo spirito della dichiarazione pronunciata da Josei Toda nel 1957 sull’abolizione delle armi nucleari.
Durante gli anni della guerra fredda il Mar glaciale artico occupava una posizione altamente strategica a livello geopolitico, perché i sottomarini a propulsione nucleare di entrambi i blocchi occidentale e orientale trasportavano missili balistici al di sotto della calotta polare. Se il riscaldamento globale dovesse causare il restringimento o addirittura lo scioglimento della calotta polare durante i mesi estivi, si potrebbe aprire la strada a una militarizzazione della regione artica, scatenando la corsa allo sviluppo dei trasporti e allo sfruttamento del fondo marino e di altre risorse, provocando uno scontro di interessi fra i paesi coinvolti. Per questo è urgente che venga vietata la militarizzazione della regione, e messo a punto un dispositivo legale per la conservazione della zona come patrimonio dell’umanità, e che si arrivi all’istituzione della Zona artica denuclearizzata.
Con la ratifica del Trattato antartico nel 1959 venne messa al bando ogni attività militare sul continente più a sud del mondo; inoltre vennero dichiarati fuori legge le esplosioni nucleari e il deposito di scorie radioattive nelle regioni al di sotto del sessantesimo parallelo meridionale. Da allora sono stati ratificati cinque trattati che proibiscono lo sviluppo, la fabbricazione, il possesso, il trasporto, la consegna, la sperimentazione e l’uso di ordigni nucleari. Le Zone denuclearizzate (Nwfz) si sono estese includendo l’America Latina e l’area caraibica, il Pacifico meridionale, il sud-est asiatico, l’Africa e l’Asia centrale. Tali regioni, che coprono la maggior parte delle terre emerse dell’emisfero sud, servono da freno alla proliferazione nucleare in quelle aree e contribuiscono a rafforzare la spinta verso la messa al bando delle armi nucleari. Insieme alla Mongolia, che nel 2000 ha dichiarato il proprio status di paese libero dal nucleare, oltre cento stati – più della metà dei governi della Terra – hanno firmato questi accordi, lanciando così il messaggio che lo sviluppo e l’uso delle armi nucleari è o dovrebbe essere illegale secondo la legislazione internazionale.
Mi auguro che vengano fatti ulteriori passi verso la creazione di altre zone libere dal nucleare, perché ciò contribuirebbe ad accelerare il processo già in atto di un riconoscimento condiviso a livello mondiale sulla natura illegale delle armi nucleari; questa coscienza comune potrebbe portare alla creazione di un trattato internazionale per la proibizione totale delle armi nucleari e di ogni attività finalizzata al loro sviluppo, acquisizione, possesso e impiego. Come passo concreto in questa direzione propongo l’introduzione di un trattato per il divieto dell’uso a scopi militari e la denuclearizzazione della regione artica, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Il Giappone, come paese che ha sperimentato direttamente gli orrori della guerra nucleare e che fonda la sua politica sui tre principi di non possedere, non sviluppare e non consentire l’installazione di armi nucleari sul proprio territorio, dovrebbe assumere un ruolo attivo nella realizzazione di tale impresa, cooperando con gli altri stati e con i partner della società civile impegnati nella realizzazione di un mondo libero dal nucleare.
Ritengo che questo tipo di approccio si può rivelare particolarmente efficace in merito alla questione della non-proliferazione nucleare nell’Asia nord orientale. I Colloqui a sei devono continuare la loro azione fino al completo smantellamento del programma nucleare nord coreano. Dal canto suo il Giappone dovrebbe continuare a perseguire le proprie politiche anti-nucleari e dispiegare tutti i suoi sforzi diplomatici per la denuclearizzazione di tutta l’Asia nord orientale.
Per essere efficace, ogni tentativo di riduzione e messa al bando delle armi nucleari richiede la mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale. Sulla base di tale convinzione ho suggerito – all’interno di una mia proposta dell’agosto 2006 sul processo di riforma delle Nazioni Unite – la proclamazione di un decennio di azione per l’abolizione del nucleare che vedesse come protagonista la gente di tutto il mondo, concentrando così tutte le energie e le risorse delle realtà di base per fare un necessario passo avanti.
Lo scorso anno, per commemorare il 50esimo anniversario della Dichiarazione sull’abolizione delle armi nucleari pronunciata dal secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda, la Sgi ha inaugurato la mostra internazionale Da una cultura della violenza a una cultura della pace: trasformare lo spirito umano, con l’intento concreto di promuovere il disarmo e l’educazione alla non-proliferazione come richiesto dalle Nazioni Unite. A partire dagli anni ottanta la Sgi ha organizzato una serie di mostre per accrescere la consapevolezza dei cittadini sui pericoli insiti nelle armi nucleari, cooperando con le Conferenze Pugwash e con vari partner della società civile che condividono l’obiettivo di costruire un consenso civico sul tema della proibizione e dell’abolizione degli ordigni nucleari. Tali sforzi rappresentano una parte significativa della nostra missione di buddisti che promuovono il rispetto e la sacralità della vita.
Un’altra mia proposta per creare le infrastrutture per la pace è quella di stilare e ratificare a breve un trattato che preveda la messa al bando delle cosiddette bombe “a grappolo” (cluster). Sono armi che contengono un numero enorme di mini-esplosivi capaci di diffondersi in un’area molto vasta. Questi ordigni disumani continuano a uccidere indiscriminatamente e a menomare le persone che vivono nelle aree bersaglio; le mini-bombe rimaste inesplose rappresentano un pericolo mortale anche a distanza di anni dalla fine di un conflitto, causando un grave ostacolo alla ricostruzione.
Si calcola che quattrocentoquaranta milioni di mini-esplosivi siano stati impiegati in ventiquattro paesi e territori uccidendo e ferendo circa centomila persone, e che vi siano ancora circa settantatre paesi che ne continuano a fare stoccaggio.
Nel 2003 si è costituita la Coalizione anti-cluster, una rete di organizzazioni della società civile che si battono per proibire l’uso, la produzione e lo stoccaggio di munizioni a grappolo. Il movimento ha acquisito un grande slancio, e alla conferenza che si è svolta a Oslo nel febbraio del 2007 per impostare un nuovo trattato di messa al bando di questi ordigni hanno partecipato oltre quaranta governi e rappresentanti della società civile. Come risultato concreto è stata lanciata un’iniziativa denominata Processo di Oslo che – analogamente al Processo di Ottawa che nel 1997 portò al trattato di messa al bando delle mine anti-persona – riunisce le organizzazioni non governative e gli stati interessati con l’obiettivo di prospettare azioni comuni.
Nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite su specifiche armi convenzionali (Certain Conventional Weapons, Ccw) sono attualmente in corso discussioni sulle bombe a grappolo, ma finora non sembra essersi fatto alcun passo avanti. Per quanto sia auspicabile che il maggior numero di stati aderisca alla Convenzione, ritengo che debba essere data priorità alla ratifica di un trattato entro la fine di quest’anno, come proposto dal Processo di Oslo. Così come il Trattato di Ottawa ha acquisito peso nell’ultimo decennio in quanto dispositivo umanitario internazionale che scoraggia anche gli stati non firmatari a usare le mine anti-persona, si dovrebbe costruire all’interno della società globale un consenso simile rispetto all’uso delle bombe a grappolo.
Il successo di questi sforzi, accompagnato dal forte sostegno della società civile, avrà un impatto positivo nella spinta al processo di disarmo in altri ambiti.

tratto da: Daisaku Ikeda – “Umanizzare la religione per creare la pace” Proposta di Pace 2008